Pensieri & Parole

A come Amore #2

In questa era caratterizzata da mancanza di certezze per alcuni di noi anche l’amore può essere un qualcosa di precario. Un po’ per sfiga, un po’ per il ritrovarsi con la persona giusta al momento sbagliato, un po’ perché siamo stati illusi dallo Sturm und Drang, insomma quale che sia la ragione per molti di noi anche la vita sentimentale è instabile, precaria, e se non sempre fatta di sturm è sicuramente piena di drang.

Senza tediarvi con le ragioni che mi hanno portata a questa riflessione, in questi giorni mi sono ritrovata a dover rispondere alla domanda su come vedo l’amore nelle diverse fasi della vita. Così, una riflessione di portata epocale che mi ha fatta fermare un attimo a pensare. Giusto perché non avevo abbastanza pensieri e preoccupazioni per la testa.

Partiamo dall’inizio: l’adolescenza, quando iniziamo ad avere le prime cotte. La mia fu senza ombra di dubbio Nick Carter dei Backstreet Boys, lo confesso con un po’ di vergogna. Questo passava il convento all’epoca quindi non giudicate, sono sicura che anche voi avete cotte nell’armardio che vi riempiono di imbarazzo. Ma non è questo il punto. In quegli anni cruciali per lo sviluppo emotivo, come se non fossero bastate favole e cartoni della Walt Disney a darci l’immagine dell’amore come risoluzione a ogni difficoltà – amore che tra l’altro bussa alla porta, portato dal destino, senza alcuna discussione sul verso corretto del rotolo di carta igienica – a metterci il carico è stato Shakespeare. Ebbene sì, punto il dito e j’accuse! Romeo e Giulietta, l’amore tragico, l’amore al di sopra di ogni ragionamento, che sfida ogni logica, che sfida la vita stessa perché amore è vita – o morte. Il ragazzino con l’ombra di barba sul labbro superiore diventava quindi l’unico pensiero, salvifico e mortale, la via verso la felicità. Penso alla stregua di psicoanalisti che grazie a Shakespeare hanno saldato il mutuo e si stanno comprando anche la seconda casa al mare.

Per noi cosiddetti millennials, il mito di Romeo e Giulietta è stato ben presto affiancato da quello di Jack e Rose. Ebbene sì: Titanic. Un’altra storia in cui un paio di giorni valgono più di una vita intera. Almeno lì uno dei due si salva ma l’amore rimane vivo decade dopo decade, sempre lì, come promemoria di quella felicità assoluta sfiorata (un saluto al mio analista!). Solo che a un certo punto si cresce. Pur non volendo, ci ritroviamo a dover trovare altri riferimenti d’amore. Ed è qui che sorge il problema, perché ancora una volta Hollywood ci propone modelli irrealistici, dell’amore che in un modo o in un altro trova la sua via (la lista di titoli è infinita, ve la risparmio). La letteratura, poi, non ne parliamo. Siamo inondati da libri alla Fabio Volo, da lieti fini che fanno venire il latte alle ginocchia anche ai romantici più accaniti. E poi c’è la School of Life, del filosofo contemporaneo Alain de Botton che propone un rifiuto dell’amore romantico in favore di un amore maturo e razionale, costruito sul compromesso. E poi ci sono io, inguaribile romantica che oscilla tra il tragico e il drammatico. Sempre in ossequio al mio analista, per me piano piano il modello è diventato quello di Emma Bovary: l’ideale d’amore è stato ucciso dalla realtà mediocre e non c’è illusione di passione che possa salvarci.

No, non è vero, io purtroppo sono ancora vittima del modello disneyano per cui l’amore risolve tutto. Quindi cerco di trovare l’amore intorno a me, nelle piccole cose. Perché forse è questo che si impara con il passare del tempo, che l’amore non è unico e irripetibile ma è una predisposizione d’animo. Ma soprattutto, ho iniziato a credere nell’amore per se stessi, nel non rinunciare a chi si è per rientrare in una definizione che non ci appartiene. Perché, in fondo, essere fedeli a noi stessi è l’unica certezza che possiamo darci.

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