Libri

L come Libri #9

Interrompo l’ondata di post pesantucci del mio ormai intermittente blog per un intermezzo (finalmente) leggero. Ovvero una recensione dell’ultimo libro che ho letto. Che poi, a dirla tutta, più che una recensione è una richiesta d’aiuto.

Il libro che raggiunge il post numero 9 della categoria (ammetto che mi vergogno un po’ di averne scritti così pochi di post letterari) è un thriller firmato Donato Carrisi: Il tribunale delle anime. Prima di lanciarmi nel commento corredato da domande a cui spero che qualcuno possa rispondere, è d’uopo una premessa. Sono un’avida lettrice di romanzi che ha un debole per i gialli e ha sviluppato un certo gusto per i thriller. Se l’amore per i gialli ha radici profonde (avevo 8 anni quando mi lessi pressoché tutta Agatha Christie e scrissi la mia prima struttura di un giallo mai scritto), la passione per i thriller è nata di recente. Ricordo ancora il mio snobismo, rotto da colui che mi ha consigliato i libri che più ho amato nella vita e che hanno formato il mio gusto da lettrice: mio padre. Per rimanere in tema del blog nato con il dottorato, era giustappunto la mia prima estate da dottoranda, nel lontano 2015. Quell’estate, per ragioni personali, la passai in una città non mia, con molto tempo fra le mani e un’afa tale da buttarmi fisicamente giù (grazie, pressione bassa). Così, non mi restava che leggere. Mio padre, lungimirante e conoscitore dell’animo di sua figlia, mi convinse ad andare contro le mie resistenze basate su pregiudizi e mi diede alcuni libri di Jo Nesbø. Che ve lo dico a fare, fu amore a prima pagina e nel giro di un’estate recuperai tutta la saga di Harry Hole, che tutt’ora seguo con tanto di aggiornamenti via mail (niente spoiler, Luna rossa non l’ho ancora letto!). Questo per dire che da allora ho letto parecchi thriller, divorando Mankell (forse il mio preferito per lo spessore sociale dei suoi libri), chiedendomi come sia possibile che ci siano persone a cui piacciono i libri di Camilla Lackberg (osceni, prevedibili, melensi, osceni) e non disdegnando Anne Holt (che se non avete mai letto vi consiglio — a meno che non siate amanti della Lackberg, in quel caso alzo le mani e vi chiedo di dirmi cos’è che vi piace dei suoi romanzi). È stato nuovamente mio padre a suggerirmi il thriller di Carrisi, e visti i precedenti mi fido ciecamente del gusto letterario di mio padre.

Sì, la sto facendo lunga, ma tutto questo per dire che non sono una novellina e di thriller ne ho macinati un bel po’. Intanto, ci tengo a sottolineare per chi se lo stia chiedendo che sì, tra gialli e thriller c’è un’enorme differenza. Il giallo è il classico libro del mistero, con l’investigatore, gli intrecci, e soluzioni in genere plausibili. Il thriller è molto più cinematico, più violento, con molti più intrecci e alta tensione. Detto ciò, passiamo all’argomento principale di questo post: Il tribunale delle anime.

La prima cosa che mi ha colpito di Carrisi è la scrittura. Non c’è che dire, scrive molto bene e leggerlo è un piacere. A differenza di altri autori (come la Lackberg, tanto per fare un esempio) la scrittura è curata, chiara, e priva di ridondanza (ciao Manrico Spinoli & De Cataldo!). La trama è costruita piuttosto bene e, lo confesso, mi ha portata fuori strada varie volte, risultando in un libro tutto sommato avvincente che mi ha distratta e tenuta incollata alle pagine in alcuni momenti. In altri….beh, in altri mi ha fatto roteare gli occhi al cielo in maniera tale che per poco non mi perdevo nei meandri del mio globo oculare. Per non tediarvi, andrò sinteticamente al punto, chiedendo a chi non ha letto il libro di fermarsi qui. Spoiler alert!

Sandra Vega, la co-protagonista, co-investigatrice, è un personaggio così noioso e melenso che sembra uscita da un romanzo di Camilla Lackberg. Il fu marito David le lascia una serie di indizi fotografici la cui risoluzione da parte della triste vedova è un po’ forzata, per non dire totalmente assurda e causa di tante roteate d’occhi. Riassumo la mia reazione di fronte a ogni parte del libro con la storyline Sandra-David con un’efficace gif:

Detto ciò, la storia di Marcus, Davok e i penitenzieri, o preti-profiler, mi è piaciuta molto e non mi sarebbe dispiaciuto leggere un libro senza Sandra e concentrato su Marcus. Ho particolarmente apprezzato tutta la parte dedicata al cacciatore-trasformista, soprattutto le scene ambientate a Pripjat. Immagino un libro molto più piacevole senza Sandra e con la caccia tra i due molto più dettagliata. Insomma, Carrisi, noi amanti dei thriller vogliamo tensione, non scene da filmetto romantico stile La5!

Ora, veniamo al punto cruciale, che poi è la ragione di questo post: chi cavolo è Shaber??? Ci viene presentato come un agente dell’Interpol che lavorava con David alla ricerca dell’archivio dei penitenzieri. È la persona che riesce a far uscire Sandra dalla vedovanza e farle riscoprire che può ancora vivere, essendo giovane e con una vita d’amore e passione davanti (a quanto pare con la benedizione del defunto marito, il quale, evidentemente prevedendo la sua dipartita, le aveva lasciato non solo gli indizi per scovare i penitenzieri ma anche per farle capire che la voleva felice e libera di amare. Ma tu pensa!). Scopriamo, in maniera anche un po’ prevedibile, diciamolo, che Shaber in realtà non è l’agente dell’Interpol ma in realtà…In realtà da qui c’è il buio. Lì per lì ho pensato che fosse il trasformista, ma alla fine scopriamo che il trasformista era Marcus fin dall’inizio, quindi…chi è Shaber? È un altro trasformista? È evidentemente un altro penitenziere sulle tracce del trasformista, ma che fine fa? È un penitenziere trasformista? Da dove esce? Era allievo di Davok? Sappiamo che è a caccia di Marcus, ma dov’è andato a finire? Che c’entra con la morte di David?

Non dubito che leggendolo la sera io possa essermi persa dei dettagli mentre il sonno prendeva il sopravvento, ma, giuro, non riesco proprio a dare un senso a questo pezzo della trama. In attesa che Carrisi scriva un libro incentrato su Shaber e ci spieghi chi sia (da dove viene? Che faceva con David? Dopo che ha trovato le foto di David con Marcus in bella vista, com’è possibile che non l’abbia trovato? Che fine ha fatto? Quell’ultima scenetta con Sandra che senso aveva? Chi diamine è Shaber???), chiedo a chiunque abbia letto questo libro di darmi la sua idea, perché mi ci sto arrovellando sopra.

Pensieri & Parole, Post PhD

A come Assenza #2

Di tutte le cose che avrei voluto scrivere, torno dopo altri mesi di silenzio per riparlare di assenza.

Questo nuovo capitolo fatto di assenze parla anche di mancanze, come quella che sento per la vita in Nord America che, per ora, mi sono lasciata alle spalle. Tante cose sono tornate con me in Europa, tante altre le ho dovute salutare. Ma la cosa più difficile del tornare è fare i conti con chi è rimasto, con chi c’era e con chi non c’è più. A volte si tratta di assenze non percepite, dovute a strade che si dividono, pensieri che prendono direzioni diverse e tracciano distanze insormontabili. A volte, purtroppo, sono assenze imposte dalle leggi di natura. Queste assenze sono spesso improvvise e decisamente non scelte, e sono le più difficili da affrontare. A volte anche le assenze dovute a strade che si separano fanno male, incluso quando le distanze vengono prese con consapevolezza.

Le distanze geografiche causano altre assenze difficili. Mi pesa non essere più nella regione dei grandi laghi. Sento i miei amici, la mia famiglia americana, cominciare il nuovo semestre mentre io sono qui sospesa tra un contratto e l’altro, a scrivere come una matta e a perdermi nel lavoro mentre la vita scorre fuori. Questa è la vita che ho scelto, che mi piace, ma che mi rende assente nella vita di tante persone. Alcune di loro si sono allontanate da sé, perché hanno ritmi di vita troppo diversi, da altre mi sono allontanata io per incapacità a gestire il mio tempo, con altre si è trattato di differenze insormontabili. Ognuna di loro mi ha lasciato qualcosa, anche solo un ricordo.

Più di tutte, mi mancano quelle persone che mai avrei pensato di perdere. Quelle che ci sono sempre state, che pur non vedendole per anni sapevi che erano lì. Ne avevi notizie tramite gli amici in comune e sorridevi e traevi conforto nel sapere che stavano bene. Quelle persone che senza rendertene conto sono entrate a far parte di te e lasciano un vuoto dietro che neanche ti aspettavi, pur sapendo che prima o poi sarebbe arrivato. Allora stai lì, a guardare un nuovo vuoto dentro di te, e ti chiedi come riempirlo. Poi ti dici che no, quel vuoto sta bene così. Perché le persone che ci lasciano non si possono sostituire, non le voglio sostituire. Quel vuoto lo sto riempiendo di ricordi. Fa male ripensarci, perché sapere di non poterle più rivedere è doloroso, ma è anche bello vedere come quel vuoto si riempie di ricordi che si erano persi, nascosti, finiti negli angoli della mente occupata a pensare ad altro.

Ma non voglio rattristarvi pensando a chi non c’è più. La vita è fatta così, di incontri e di perdite. A volte si perde in maniera definitiva anche chi c’è ancora, ma esiste in un’altra dimensione. Spesso quelle sono mancanze che fanno altrettanto male. Il sapere di avere qualcuno a portata di mano eppure non poterlo raggiungere, il chiedersi perché, il domandarsi cosa fare o cosa non fare, l’immaginare mille scenari diversi, quei mille “e se” che ci passano per la testa. Sono tante le persone che tornando in Europa non ho ritrovato. Mi mancano e mi dispiace averle perse, ma poi mi guardo intorno e vedo le tante persone nuove che ci sono, che si aggiungono a quelle che sono rimaste, e non posso fare a meno di sorridere.

Non so come andrà la nuova avventura che mi aspetta, ma so che quelle che ho vissuto finora mi hanno riempito la vita di persone meravigliose che spero mi accompagneranno per un bel pezzo di strada. Starà a me riuscire a tenermele strette nonostante la distanza. Ci sono state anche meteore che mi hanno lasciato tanto. Incontri imprevisti che durano il tempo di un semestre ma che lasciano ricordi che dureranno una vita. Il bello del girare così tanto è il riempirsi di ricordi tanto diversi, di incontri che mai avresti immaginato, di storie che quando sarai in un’altra vita ne sorriderai sempre a ripensarci. Poi ci sono le persone a cui sai di aver lasciato anche tu qualcosa, e speri che loro sorrideranno altrettanto a ripensare a te.

Nel frattempo chiedo pubblicamente scusa a tutti gli amici che non ho visto nonostante io sia stata ferma per mesi. Ero ferma fisicamente ma non mentalmente, a tratti son stata ferma fisicamente anche perché provata dalla mia nuova condizione post-covid di cui non parlo volentieri. Sono ancora ferma a scrivere. Dare vita a un libro accademico è un sogno che si avvera ma mi ha tolto ogni momento disponibile. Come disse un’amica, una di quelle che c’è ancora nonostante la distanza, delle “tre S” (Sleep, Study, Socialise), il dottorato ne permette solo due. Ecco, il postdoc è uguale.

Alla prossima puntata, da chissà quale parte del mondo.

Lavoro, Post PhD

A come Assenza

Ovvero, come sono sparita dalle pagine di questo blog.

Ci sono periodi in cui la vita sembra procedere lentissima. Non succede nulla, tutto è sempre uguale, una ripetizione di giornate un po’ vuote, in cui ci sentiamo sospesi e un po’ persi. Poi invece succede che arriva il cambiamento, il più delle volte inaspettato, e ci troviamo travolti dalle novità, da ritmi di vita così veloci che “sembra impossibile che siano passati mesi dall’ultima volta che”.

Ed ecco che sono passati mesi, quasi un anno, dall’ultima volta che ho scritto su questo piccolo blog. Molte cose sono cambiate da allora, altre sono rimaste le stesse, ma più di ogni altra cosa sono cambiata io. Il Covid non mi è scivolato addosso. Non riesco più a correre perché il mio cuoricino, all’apparenza integro, aumenta i battiti all’impazzata, mi toglie il fiato e ogni energia. Sto cercando di venirne a capo, ma quanto mi manca la corsa. Ieri però, piano piano, ho corso per due minuti di fila. Ho provato quasi la stessa soddifazione dei primi 5km.

Non è in questo però che mi sento cambiata. Gli ultimi mesi li ho passati a insegnare a tempo pieno. Proprio io, che stavo per mollare questo mondo accademico da cui ricevevo solo ed esclusivamente rifiuti, ho trovato lavoro come lecturer a tempo pieno. Sono ancora in Nord America ma ho varcato il confine, pur rimanendo nella regione dei grandi Laghi. Laghi che ancora non ho visto! I corsi da preparare e da gestire mi tolgono ogni momento libero, e quei pochi che riesco a ritagliarmi cerco di usarli per alcuni articoli che sto scrivendo, perché la ricerca rimane la mia passione. Lo è a tal punto che sto per cambiare Stato per la terza volta in tre anni. Il Vecchio Continente mi ha riaperto le porte offrendomi quel postdoc tanto ambito che solo due anni fa descrivevo come “il biglietto vincente della lotteria”.

Eppure il Nord America mi mancherà. Mi mancheranno le persone che ho incontrato, le nuove abitudini, questo mondo tanto lontano da noi che è diventato parte di me. Eppure non sono convinta di aver vinto la lotteria, o di star prendendo la decisione giusta. Però mai avrei immaginato di poter avere una scelta a livello lavorativo. A volte devo fermarmi per ricordarmi quante cose sono cambiate, e di come la scintilla del cambiamento sia partita proprio da me. Nonostante l’insicurezza, la scarsa autostima, i dubbi, e le paure, sono state le volte in cui più mi sono esposta che la scintilla ha dato vita al fuoco. Ho ancora paura di scottarmi. La mia storia è fatta di bruciature e ustioni che hanno lasciato il segno, ma anche di passi avanti incredibili – nel senso che ancora fatico a credere di averli fatti – e di continui cambiamenti. Ho incontrato persone bellissime in questa fase americana della mia vita. Ne ho ritrovate altre che pensavo di avere ormai perso, e ne ho lasciate andare alcune che invece non mi facevano più stare bene.

Ci sono anche cose che non mi mancheranno affatto. Prima fra tutte, i fazzoletti americani. Ma questa è una storia per un altro post.

Pensieri & Parole

C come Covid-19

Questo è uno di quei post che avrei tanto voluto non scrivere. Si tratta di una di quelle storie della serie Se vuoi far ridere Dio, parlagli dei tuoi piani.

Per la mia ultima settimana a Toronto avevo un sacco di piani. Volevo salutare per bene la città che più mi ha cambiata. Avevo programmato una serie di visite ai musei, alla famosa (e alquanto bruttina) CN Tower. Sognavo un pomeriggio a leggere alle Toronto Islands seguita da una cena in giardino con tutti i miei amici di qui. Persone che mi pesa tanto lasciare ma che sono veramente grata di aver incontrato.

E invece.

E invece ho preso il covid. Io, che vado in giro sempre con la FFP2 (o la NK95), che ho sempre con me una quantità di gel igienizzante che fa ridere i miei amici, i quali neanche se lo portano più perché tanto sanno che ce l’ho io. Io, che non sono andata al concerto dei Royal Blood perché non mi sentivo sicura a stare in mezzo alla folla. Io, che forse stupidamente mi sono concessa un bagel all’aeroporto di Newark, con il volo in ritardo di un’ora. Ho tolto la mascherina solo il tempo di mordere il panino, ho masticato con la mascherina per limitare l’esposizione. Perché negli States non la porta più quasi nessuno e in aeroporto ero parte della minoranza. O forse sarà stata la serata a teatro, dove nuovamente ero tra i pochi con la mascherina. Rigorosamente FFP2, rigorsamente seduta all’esterno ed evitando contatti. Eppure. Ci sono voluti due secondi al test rapido per far uscire fuori la seconda linea. È apparsa persino prima di quella di controllo. Ho sperato fino all’ultimo di aver preso freddo, che fosse un crollo delle difese dovuto all’altissimo stress di queste ultime settimane. In fondo, ero andata a correre ed era molto umido, il vento che si è alzato poi ha fatto il resto.

Eppure c’era qualcosa di strano. Non riuscivo a correre, il fiato era corto. L’umidità, pensavo. E poi ecco che ora dopo ora le cose sono peggiorate. E continuano a peggiorare, ora dopo ora. Ed eccomi qui, in un momento di pausa dalla tosse – l’aggiunta di oggi al mal di testa lancinante, alla spossatezza, ai dolori articolari, e al raffreddore più acuto mai avuto – a chiedermi se abbia senso sperare che io possa negativizzarmi in tempo per il volo di rientro in Italia. Se non sia il caso di rassegnarsi e comprare un nuovo biglietto. A sentirmi frustrata sapendo che non essendoci alcuna resitrizione potrei viaggiare facendo finta di niente, come tanti ormai fanno. Perché coloro che viaggiano, vanno al cinema, a teatro, senza mascherina, a dare dei paranoici a noi che continuiamo a fare attenzione, sono una delle ragioni principali per cui stiamo sempre punto e a capo.

Mi sento fortunata. Riesco per ora a gestire tutto a casa, senza bisogno di cure particolari. Sono fortunata, perché posso permettermi, anche se a fatica, di comprare un nuovo biglietto aereo. Sono fortunata, perché ho trovato persone che mi danno supporto. Sono anche preoccupata, perché ogni giorno ho un nuovo sintomo e mi chiedo se e quali danni questo maledetto virus mi stia causando. Mi chiedo se mi riprenderò in fretta, se le mie capacità cognitive torneranno come prima, se ricorderò questo momento come un semplice ricordo un po’ triste della mia ultima settimana a Toronto, o se sarà lo spartiacque di una vita diversa, in negativo.

‘Stai tranquilla’, mi dicono. Ma io non sto tranquilla. Io sono preoccupata e frustrata. E mi chiedo come farò il prossimo anno accademico a insegnare in presenza, in un posto dove le mascherine sono opzionali. Il tutto mentre il mio cervello è sommerso dalla nebbia e non riesco a lavorare. Le scadenze non prevedono sconti o pause covid. Quindi no, non sto tranquilla. Sono frustrata, arrabbiata, preoccupata. E ho tutte le ragioni per esserlo.

Pensieri & Parole, Post PhD

I come Imprevisti

Molti di noi hanno imparato cosa significa un imprevisto giocando a monopoli. ‘Vai dritto in pringione senza passare dal Via’ è stata probabilmente una delle prime grandi frustrazioni che abbiamo dovuto affrontare. È proprio quando sei lì lì per salvarti dalla bancarotta che arriva quell’imprevisto. Quel ‘senza passare dal Via’ che ti porta via quelle ventimila lire che ti avrebbero permesso di continuare un altro giro. Non sapevamo allora, anime candide, che quel piccolo ostacolo era solo l’inizio di una lunga serie di imprevisti.

La maniglia della valigia di 20kg che si rompe proprio quando stai per salire in metro e il peggio sembra passato. La pioggia che si scatena quando hai appena scaricato la spesa dalla macchina e sei esattamente a metà, tra l’auto e il portone, e non c’è neanche un balcone sotto cui ripararti. Il caffè finito proprio la mattina dopo una notte insonne prima di un incontro importante. La penna che non funziona proprio quando devi prendere un appunto essenziale. Quelle ventimila lire, di fronte a tutti questi imprevisti, non sembrano poi più tanto fondamentali.

Ci sono poi gli imprevisti che cambiano tutto. Un esperimento in laboratorio che cambia tutti i dati, un incontro fortuito che ti fa sentire meno solo, un colloquio andato male che ti porta dall’altra parte del mondo, un’attesa che risulta in una delusione e ti porta ancora dall’altra parte del mondo. Quel senza passare dal via che ti fa saltare quella sfilza di alberghi su corso Impero e ti fa risparmiare quel tanto che basta per sopravvivere un altro giro. E mentre tu sei bloccato in quell’imprevisto maledetto, ecco che il tuo diretto rivale ti resuscita capitando proprio sul tuo Parco della Vittoria con quell’albergo che ti è costato ogni risparmio, unica proprietà rimasta in quel gioco a monopoli privo di ogni strategia. Dopo tutto, a cinque anni l’unica strategia possibile è prendersi tutte e quattro le stazioni e Parco della Vittoria, diciamocelo. Imperterriti, puntiamo tutto lì. Certo, a volte tocca accontentarsi della società elettrica e sperare di conquistare anche l’acqua potabile, ma su Parco della Vittoria non si molla (pur dando sempre la priorità alle stanzioni, s’intende).

Ecco, la nostra vita è un po’ come monopoli. Mente proiettata sull’obiettivo, ci strappiamo i capelli e ci rassegniamo a una giocata infelice quando il nostro consanguineo pesca la stazione Est e sai che non te la venderà mai. E mentre tu hai perso tutto per costruire case sul tuo Parco della Vittoria ed esulti alla conquista di viale dei Giardini, i tuoi rivali battono cassa con le mille proprietà che gli hai venduto perché avere quelle due proprietà viola valeva tutto. Eri così concentrato su quei due terreni che hai perso di vista la cosiddetta big picture. Poi arriva l’imprevisto ed eccallà, hai finito, partita persa. E invece. E invece quell’imprevisto finisce che ti porta altrove e cambia tutta la partita. Certo, hai perso terreni. Hai dovuto fare scelte difficili, alcune veramente toste come cedere proprio Parco della Vittoria, ma hai tre stazioni e tutti i territori arancioni. Sei a un passo dal prenderti anche la stazione Est, il consaguineo dovrà cederla, e ti manca solo corso Magellano per avere tutti i terreni rossi. Così cambi strada, per via di quell’imprevisto che lì per lì sembrava la fine di tutto.

Certo, hai perso una serie di terreni su cui avevi puntato molto, tutto anzi. Soffri ogni momento che passi per Parco della Vittoria, ma in fondo la partita non è ancora finita e chissà quali altri terreni riuscirai a conquistare. E chissà quali altri imprevisti rimesoleranno le carte in tavola e ti porteranno in direzioni che mai ti saresti aspettato, regalandoti alla fine una partita ancora più bella, ancora più emozionante. Peccato solo per il consaguineo, che se non ti vende quella stazione Est la pagherà per il resto dei suoi giorni. Perché a cinque anni siamo spesso senza strategia, ma vendicativi sempre.

https://mimiandeunice.com/2011/08/26/decisions/
Pensieri & Parole, Post PhD, Viaggiare

N come Neve

Ho sempre sognato di vivere in un posto dove nevica d’inverno, soprattutto perché sono nata e cresciuta in una grande metropoli dove la neve non arriva e se arriva dura poco pur mettendo in ginocchio la città.

Non appena ho deciso di trasferirmi a Toronto ho iniziato a fantasticare di inverni imbiancati, di Natali da cartolina, di cioccolate calde mentre fuori i fiocchi di neve attutiscono ogni rumore. Ogni tanto nella vita i sogni si realizzano, e ognuna di queste mie fantasticherie si è avverata.

Eppure anche la neve a volte diventa un po’ eccessiva. Come ogni cosa nella vita, non tutto ciò che è oro brilla, il troppo stroppia, ecc. ecc., e anche la neve finisce per non dico stancare, ma per risultare un po’ inopportuna sì. Tipo oggi, 18 aprile 2022, e sottolineo aprile, le nevicata non me la meritavo. Giusto ieri Toronto ci ha deliziati con temperature intorno ai 10° e un sole che ha reso il vento gelido più sopportabile e il cielo di un blu brillante. Bellissimo. C’era proprio aria di primavera e già si sognavano picnic alle Toronto Island e gite fuori porta all’Algonquin park. E invece ha nevicato e siamo tutti di nuovo chiusi in casa.

Che poi questo tempo sarebbe ideale se uno potesse rilassarsi e basta, stare a letto a leggere mentre fuori la tempesta imperversa. Diversa è la storia quando la testa è piena di pensieri, la mente in continuo rimuginio, il cervello che non si spegne mai se non preso per stanchezza fisica. Ma è difficile stancarsi fisicamente quando si sta di fronte a un computer tutto il giorno. Seduti su sedie più o meno comode, a mangiare più o meno sano (ciao patatine sale e aceto!), la giornata passa in sordina. A stare così tanto chiusi in casa, lo abbiamo imparato a marzo 2020, si appassisce. Si lascia troppo spazio ai mostri della mente, che hanno tutto lo spazio per crescere perché si sa, l’unico antidoto è l’aria aperta. Avete mai provato a sentirvi in ansia o depressi al mare, in montagna, a passeggiare sotto il sole e a godere dello spettacolo offerto dalla natura? Non ci si riesce.

L’ho sperimentato giusto di recente sotto il sole estivo della California. Nemmeno le brutte, deludenti notizie ricevute sono riuscite a distrarmi dalla bellezza dei cuccioli di leone marino stesi sugli scogli, baciati dalle onde del Pacifico e cullati dai richiami dei pellicani.* Tornata a Toronto, però, sono arrivati il vento freddo e le nuvole cariche di pioggia e neve a ricordarmi che le cose non vanno mai come le si era immaginate e sognate. Persino la tanto desiderata neve, alla fine, arrivati al 18 aprile, non porta più con sé la stessa gioia immaginata nel caldo torrido di Roma, dove non nevica mai.

Non resta che continuare a cercare. Dovrà pur esserci una città dove nevica d’inverno ma dove la primavera arriva prima di luglio, no?

*I pellicani, ho scoperto con stupore, puzzano.

Pensieri & Parole, Post PhD

A come Attesa #2

Di nuovo?! Ebbene sì. Mio malgrado sono ancora in attesa. Meno trepidante, intendiamoci, sono più sul rassegnato andante, ma pur sempre di un’attesa si tratta. È infatti successo che inspiegabilmente i risultati tanto attesi e preannunciati non sono arrivati. A nulla è valsa la notte insonne ad aspettare la mail che deciderà del mio destino! Ho solo passato la giornata fuori di testa per la mancanza di sonno, la frustrazione e, ovviamente, l’ansia.

Fortunatamente in questi casi la soluzione c’è: buttarsi sul lavoro. Peccato che nel mio caso il lavoro non fa che ricordarmi per l’appunto di questo risultato che fremo di ricevere. Più che un risultato, in effetti, si tratta di una sentenza. Avrò un nuovo contratto per il prossimo anno? Potrò continuare la mia ricerca? Ha un senso tutta la fatica fatta per scrivere un progetto in cui ho praticamente pianificato cosa farò giorno per giorno per i prossimi 48 mesi? Tutte domande a cui, ahimè, ancora non ho risposta. Nelle brevi ore di sonno agitato, ho sognato di vincere la fellowship, poi di perderla, poi di ricevere una mail che però non si capiva se fosse positiva o negativa. Poi ho iniziato a dirmi che in California – dove andrò a breve – farà caldo e qui invece nevica ancora e non so come fare a far entrare il giaccone invernale dentro il bagaglio a mano.

Saltando di palo in frasca la notte agitata è passata, lasciando il posto a una giornata fatta di continui aggiornamenti della mail, del portale della fellowship, e del sito del Guardian, perché ansia chiama ansia e quindi era giusto prendermi la dose quotidiana di brutte e inquietanti notizie. Per ben dieci minuti poi mi sono distratta con le ultime notizie sul covid, sulla nuova subvariante che sta mandando all’aria tutti i piani dei governi di far finta che ormai il covid è finito, tornate pure a consumare e crepare, crepare e consumare, tanto tra un po’ moriremo tutti in un conflitto atomico. Stanca di tutta questa pesantezza sono uscita, la meta: il supermercato. Fare la spesa è per me un momento di relax, un luogo di perdizione in cui indugiare sui piaceri dei sensi più ancestrali. In Nord America, poi, il supermercato è anche un’attrazione turistica: cibi mai visti in confezioni così grandi che neanche riesco a portarle senza farmi aiutare da qualcuno. Si trova anche cibo italiano mai visto in Italia, tipo i tortellini tricolore ai quattro formaggi o taralli mosci alle olive. Prima che ve lo chiediate, no, non li ho comprati. Ho preso però altra Nutella, nel barattolo medio da 750gr che se continuo così durerà sì e no fino a mercoledì (oggi è lunedì, qualora mi stiate leggendo a distanza di molto tempo da oggi).

Tornata a casa ho trovato il coinquilino che preparava i cuculi calabresi. Indovinate com’è finita? Ebbene sì, il cuculo è stato spaccato a metà e riempito di Nutella. Consigliatissimo (cara Ferrero, se tu volessi assumermi per sponsorizzarel Nutella a livello mondiale, potrei essere disponibile).

Morale della favola: sono ancora in attesa, non ho combinato niente perché il pensiero di cosa ne sarà di me, del mondo come lo conosco, della cara vecchia Europa e dell’umanità intera, mi ha tenuta occupata tutto il giorno. Così ho mangiato, mangiato, mangiato. Adesso ho la gastrite, ho sonno ma come i bambini non voglio andare a dormire. Sia mai che arrivi la tanto sospirata email…

Pensieri & Parole, Post PhD

A come Attesa

Tempo fa, dopo un assaggio di vita d’ufficio con orari di quelli che una vita privata te la puoi scordare, ho scelto di fare un ultimo tentativo nel mondo accademico. Precaria per precaria, mi son detta, meglio esserlo facendo qualcosa che mi piace.

Tranquilli, non è un altro post sulla precarietà. È un post per tutti quelli che si ritrovano in attesa. Ad aspettare un qualcosa, preferibilmente non Godot. Come migliaia di altri ricercatori quest’anno ho fatto domanda per il bando di ricerca europeo più importante, noto con l’affettuoso nome di Marie Curie (MSCA per chi è del mestiere). I risultati, pare, usciranno domani 14 marzo 2022. Le possibilità di successo credo siano inferiori a quelle di vincere con un singolo biglietto la lotteria. Dopotutto, il principio è lo stesso. Così, ci si ritrova in trepidante attesa, facendo finta di fare altro e non pensarci troppo per ingannare il tempo, che si sa in questi momenti passa più lento che mai.

Tutti noi aspettiamo un qualcosa. Aspettiamo che questa pandemia finisca, che i colloqui per la fine della guerra in Ucraina portino buone notizie, che arrivi la lettera che abbiamo spedito, che qualcuno ci chiami. La lista delle attese è lunga. Per non parlare di Godot, quell’attesa infinita di quel qualcosa o qualcuno che finalmente ci renderà felici. Godot però non arriva mai, e noi rimaniamo fermi. Ma ci sono troppe cose tristi di questi tempi, e questo post vuole invece essere un momento di leggerezza.

Dunque, dicevamo, l’attesa. Cosa fare per ingannare l’attesa? Il mio coinquilino lavora come un matto, lavora come se la sua pubblicazione cambierà il mondo, come se la continuità della vita umana dipendesse dal suo libro. Lo invidio, lo ammetto. Sdraiata a letto, avvolta nel piumone, mentre fuori nevica, mentre leggo L’Educazione sentimentale di Flaubert, mangiando biscotti e nutella, ogni tanto mi chiedo se non farei meglio a seguire il suo esempio. Eppure ho fatto del non lavorare nel fine settimana un mio mantra (salvo scadenze inderogabili, s’intende), quindi con una scrollata di spalle scaccio il pensiero stacanovista e torno al mio pomeriggio all’insegna del relax. Ho anche fatto una pennica di quelle che nelle giornate frenetiche rimpiangi più dell’amore perduto. Ora che però sono sveglia, e mancano ancora molte ore alla comunicazione dell’esito di un assegno di ricerca che potrebbe cambiarmi la vita, mi domando cos’altro fare per ingannare il tempo.

Scrivo, ma come vedete ho poche idee. La mente torna sempre lì. Avete presente, no? Quel retropensiero sempre presente che la vostra mente mette più o meno a fuoco a seconda di quanto siete concentrati su ciò che state facendo. Un po’ come Madame Arnoux per Frédéric, per capirci. Così alterno lettura, scrittura, Netflix, biscotti, nutella, tè verde. A ripetizione. In attesa di uscire nell’imprevista tempesta di neve per andare al ristorante persiano. Non ho mai mangiato persiano, ma se è simile al libanese so già che lo adorerò. Adorerò un po’ meno uscire con una temperatura percepita di meno 17 gradi centigradi. Ma pur di ingannare quest’attesa, farei qualsiasi cosa.

Pensieri & Parole

A come Amore #2

In questa era caratterizzata da mancanza di certezze per alcuni di noi anche l’amore può essere un qualcosa di precario. Un po’ per sfiga, un po’ per il ritrovarsi con la persona giusta al momento sbagliato, un po’ perché siamo stati illusi dallo Sturm und Drang, insomma quale che sia la ragione per molti di noi anche la vita sentimentale è instabile, precaria, e se non sempre fatta di sturm è sicuramente piena di drang.

Senza tediarvi con le ragioni che mi hanno portata a questa riflessione, in questi giorni mi sono ritrovata a dover rispondere alla domanda su come vedo l’amore nelle diverse fasi della vita. Così, una riflessione di portata epocale che mi ha fatta fermare un attimo a pensare. Giusto perché non avevo abbastanza pensieri e preoccupazioni per la testa.

Partiamo dall’inizio: l’adolescenza, quando iniziamo ad avere le prime cotte. La mia fu senza ombra di dubbio Nick Carter dei Backstreet Boys, lo confesso con un po’ di vergogna. Questo passava il convento all’epoca quindi non giudicate, sono sicura che anche voi avete cotte nell’armardio che vi riempiono di imbarazzo. Ma non è questo il punto. In quegli anni cruciali per lo sviluppo emotivo, come se non fossero bastate favole e cartoni della Walt Disney a darci l’immagine dell’amore come risoluzione a ogni difficoltà – amore che tra l’altro bussa alla porta, portato dal destino, senza alcuna discussione sul verso corretto del rotolo di carta igienica – a metterci il carico è stato Shakespeare. Ebbene sì, punto il dito e j’accuse! Romeo e Giulietta, l’amore tragico, l’amore al di sopra di ogni ragionamento, che sfida ogni logica, che sfida la vita stessa perché amore è vita – o morte. Il ragazzino con l’ombra di barba sul labbro superiore diventava quindi l’unico pensiero, salvifico e mortale, la via verso la felicità. Penso alla stregua di psicoanalisti che grazie a Shakespeare hanno saldato il mutuo e si stanno comprando anche la seconda casa al mare.

Per noi cosiddetti millennials, il mito di Romeo e Giulietta è stato ben presto affiancato da quello di Jack e Rose. Ebbene sì: Titanic. Un’altra storia in cui un paio di giorni valgono più di una vita intera. Almeno lì uno dei due si salva ma l’amore rimane vivo decade dopo decade, sempre lì, come promemoria di quella felicità assoluta sfiorata (un saluto al mio analista!). Solo che a un certo punto si cresce. Pur non volendo, ci ritroviamo a dover trovare altri riferimenti d’amore. Ed è qui che sorge il problema, perché ancora una volta Hollywood ci propone modelli irrealistici, dell’amore che in un modo o in un altro trova la sua via (la lista di titoli è infinita, ve la risparmio). La letteratura, poi, non ne parliamo. Siamo inondati da libri alla Fabio Volo, da lieti fini che fanno venire il latte alle ginocchia anche ai romantici più accaniti. E poi c’è la School of Life, del filosofo contemporaneo Alain de Botton che propone un rifiuto dell’amore romantico in favore di un amore maturo e razionale, costruito sul compromesso. E poi ci sono io, inguaribile romantica che oscilla tra il tragico e il drammatico. Sempre in ossequio al mio analista, per me piano piano il modello è diventato quello di Emma Bovary: l’ideale d’amore è stato ucciso dalla realtà mediocre e non c’è illusione di passione che possa salvarci.

No, non è vero, io purtroppo sono ancora vittima del modello disneyano per cui l’amore risolve tutto. Quindi cerco di trovare l’amore intorno a me, nelle piccole cose. Perché forse è questo che si impara con il passare del tempo, che l’amore non è unico e irripetibile ma è una predisposizione d’animo. Ma soprattutto, ho iniziato a credere nell’amore per se stessi, nel non rinunciare a chi si è per rientrare in una definizione che non ci appartiene. Perché, in fondo, essere fedeli a noi stessi è l’unica certezza che possiamo darci.

First Appearance: May 2nd, 1961 #peanutsspecials #ps #pnts #schulz #snoopy  #impressed #constancy #stars #feeling #secur… | Snoopy comics, Snoopy love,  Snoopy quotes
Pensieri & Parole, Post PhD

R come Ritardo

Avrei potuto iniziare questo post con P come Procrastinazione, ma sarà per un’altra volta.

Mi sono resa conto che ormai la media dei miei post è di uno ogni due-tre mesi! Eppure, se solo potessi scrivere col pensiero, di post ne scriverei almeno uno al giorno. Perché non so voi, ma quando faccio cose triviali inizio a scrivere mentalmente. Non parlo solo di poemi epici che farebbero impallidire qualsiasi scrittore rinascimentale, ma anche vere e proprie riflessioni filosofiche sulla vita intense e pregne di significato.

Ovviamente ci sono anche le infinite discussioni che faccio tra me e il mio interlocutore immaginario. Lo sappiamo come funziona, no? Abbiamo una discussione, magari anche accesa, la gestiamo malissimo, ne usciamo distrutti, e poi nella tranquillità del nostro bagno, tra boccette di shampoo e dentifricio, intavoliamo una discussione degna di Cicerone. Io ho anche una sequela di creme per il viso che devo dire mi sostengono sempre senza remore in qualsiasi dibattito. Non so il vostro, ma il mio interlocutore immaginario mi risponde anche, dando vita a intense conversazioni che potrebbero creare una serie più lunga di Beautiful e con più colpi di scena della Casa di carta.

Sì, vabbè, ma che c’entra il ritardo?, vi chiederete a questo punto. Il ritardo c’entra perché sono in ritardo di mesi su questo post. Perché, presa dalle mie riflessioni di vita e le discussioni durante l’igiene orale, sono passati mesi e siamo nel 2022. Nel duemilaventidue. Faccio persino fatica a scriverlo, e onestamente questo inizio anno sa tanto di 2020, tanto che forse neanche mi prenderei la briga di imparare a scrivere la data senza errori (avete presente, no?, quando per il primo mese dell’anno ancora mettete in automatico l’anno precedente). Anzi, lo chiemeremo 2020 bis. Oddio, forse no, non vorrei portasse sfiga. Perché diciamocelo, per quanto siano successe anche cose carine (suppongo, per qualcuno di voi), potendo tornare indietro forse il 2020 non lo rivivrei, ma qui sembra che cambi la retorica ma non i fatti.

E dunque rieccoci al ritardo, perché questi due anni di pandemia, fatti di vita sospesa, di vita precaria (che sì, dovrei esserci abituata alla precarietà, ma tant’è) io mi sento tremendamente in ritardo. Non solo nella scrittura di questo post, proprio nella vita. Come avrete intuito dai miei riferimenti ormai démodé, sono una fanciulla nel pieno dei suoi trent’anni. Vivo precaria, in ogni senso: non ho un lavoro fisso, non ho un posto geografico fisso, ho solo pensieri fissi che però appunto si chiamano fissazioni e non è che siano proprio una cosa positiva. Positiva in senso antico, dell’era pre-covid, s’intende.

Intorno a me vedo persone lanciatissime nella loro carriera, che comprano casa (!!!!!!!!!!!!!), che fanno figli, si sposano, fanno i secondi figli, divorziano, si risposano, cambiano lavoro, diventano manager ecc. ecc. Per carità, anche io ho raggiunto tappe di vita importanti. Ormai so infilare il piumone del letto queen size tutta da sola e senza impiccarmi, ad esempio. Faccio ancora un po’ fatica nel piegare le lenzuola senza dargli forme strane, ma ci sto lavorando e sono sicura che entro la fine di quest’anno raggiungerò anche quest’obiettivo. Però ecco, diciamo che sul resto mi sento un po’ in ritardo.

C’è una cosa, però, che devo dire mi trova sempre in prima linea, sempre al massimo, sempre senza competizione: l’ansia. Se fosse una disciplina olimpionica sono certa che vincerei l’oro, campionessa mondiale indiscussa. Ogni giorno ne trovo una nuova, e devo dire che mi sono anche circondata delle persone giuste, quelle che se non avevo pensato a una cosa che poteva andare storta mi ci fanno pensare loro, aiutandomi a completare il mio spettro di ansie. Tipo: siamo a gennaio, e io ho l’ansia per il covid, ho l’ansia perché luglio è dietro l’angolo e temo di ritrovarmi disoccupata. Ho l’ansia perché qua ci stanno -16° e non riesco ad andare a correre, ho l’ansia perché devo presentare a una conferenza e non so bene di cosa sto scrivendo, ho l’ansia perché sono lontana da tutti i miei cari e chissà che succede.

Poi però, come in tutte le cose, mi fermo e rimetto le cose in prospettiva. Mi godo lo spettacolo di Toronto sotto la neve, con i cerbiatti che vivono felici in un cimitero e si lasciano avvicinare, le dita che si congelano prendendo sfumature di blu che non pensavo di poter vedere. Allora mi calmo, finché non arriva una nuova ondata, un nuovo pensiero. Tipo che questo post andava intitolato A come Ansia e mi viene l’ansia di aver scritto qualcosa di incoerente e privo di senso.

Buon anno!

Brain concedes
[theawkwardyeti.com]